Musicisti e FOMO: ecco come ci siamo fatti fregare dalla sindrome 2.0

L’articolo che segue è tratto dal libro
‘CHECK SOUND – Dai demo tape ai social, cronache dall’underground
e riflessioni a cavallo di due ere’ (Prospettiva editrice, 218 pagine, cartaceo)
Per leggere i primi due capitoli e saperne di più clicca qui.

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Nel mercato discografico c’è sempre stata l’esigenza di non far passare troppo tempo tra una release e l’altra perché:

a) il pubblico ha la memoria corta
b) senza un nuovo disco fuori non hai spazio nei media e senza spazio nei media chi organizza concerti non ti guarda nemmeno.

Il risultato è che se non pubblichi sarai presto un fantasma.

Questo è ancora più vero nell’era 2.0 dove tutto sembra vecchio un secondo dopo che è uscito. E siccome non è che si possa buttare in pasto al mercato qualcosa di nuovo ogni tre mesi come fanno le aziende hi-tech con le loro diavolerie, per il musicista tutto questo sa di incubo a occhi aperti.

Magari nel pop, nel rap, nel trap o nella musica mainstream foraggiata dalle major qualcuno riesce a uscirsene continuamente con singoli trainati da video intasati di culi roteanti, ma di certo non è roba per realtà underground dove l’audience è ancora legatissima al concetto di album.

Album che non cadono dagli alberi come la mela di Newton e non appaiono in sogno come una visione sciamanica, ma si materializzano solo se qualcuno ci ha dedicato sangue, sudore e bile per mesi e mesi che poi diventano come minimo due anni. E allora che si fa? Ecco sono qui che iniziano i casini, perché oggi il musicista fa tanto, spesso opinabile, rumore sul web.

Guardiamoci un attimo intorno: artisti indipendenti si sovraespongono continuamente condividendo senza sosta contenuti che li ritraggono mentre registrano, mentre compongono, mentre accordano, mentre mangiano, in sala prove, in studio, a casa. Manca giusto il video della pisciata mattutina, ma non ci metto la mano sul fuoco.

Mi chiedo se troppo spesso non si superi la linea di confine tra il necessario e l’inopportuno, ma soprattutto tra l’utile e il controproducente.

Gli psicologi e i sociologi hanno coniato il termine ‘FOMO’per indicare un nuovo disturbo dell’era dei social. L’acronimo sta per Fear of Missing Out, cioè paura di essere esclusi, irrilevanti, al di sotto della soglia di percezione. L’artista che soffre di quella che io ho sempre chiamato ansia da oblio – a conti fatti una declinazione di questa FOMO – rischia di far male a sé stesso e al sistema, annacquando la propria presenza e rendendo il giochetto sempre meno attraente per chi sta dall’altra parte.

(…)

Oggi fai un album, un bell’album, ti vedo sulle riviste di settore o su un palco e ti percepisco diverso da me povero stronzo che passo le mie giornate arenato sul divano con la panza all’aria e gli occhi inchiodati su Netflix. Chissà che vita intensa farai, chissà che soddisfazioni! Solo che poi mi cadi in preda di questa cosa chiamata FOMO e cosa fai? Mi tramortisci con contenuti di ogni genere sui social, mi insegni addirittura nota per nota quel male detto assolo che fino a ieri mi faceva passare serate agitate alla
chitarra. Non è che lo fai perché sei mosso da nobili ideali di sapere trasversale e condiviso, ma perché vuoi farci vedere come corri su quei tasti e fare man bassa di pollicioni svettanti.

Risultato? Tutto sommato ora che ti guardo bene sei uno stronzo come me, anche sei hai fatto un bel disco e come chitarrista mi dai la biada. Ed è lì che il meccanismo si inceppa. Ti vedo per quello che sei, non per quello che vorresti tanto ti vedessi. E questo contraddice tutte le regole dell’industria dello spettacolo, dove è il contrario che dal sig. Carlino di Immobil Dream:
il mercato discografico vende sogni, non solide realtà. Sei tu, o chi lavora per te, a dover alimentare e capitalizzare la percezione di quello scarto che può far drizzare le antenne.

Invece la mia impressione è che negli ultimi anni gran parte degli artisti si sia avvicinata troppo all’audience in una sorta di capriola narcisista che ha i tratti dell’autolesionismo più inconsapevole. Come se Copperfield spiegasse con un tutorial le sue illusioni prima di presentarsi davanti al suo pubblico a Las Vegas e poi ci rimanesse male se la gente in sala sbadiglia o sbircia di soppiatto le notifiche sul cellulare mentre lui si affanna a far sparire chissà cosa.

Se oggi è finita la magia, quella che solleticava lo stomaco e faceva fantasticare l’ascoltatore, credo sia anche colpa dei musicisti, immolatisi sull’altare di un’autocelebrazione didascalica e ridondante perché atterriti dalla prospettiva del dimenticatoio.

‘La familiarità genera indifferenza’

recita un vecchio adagio dei pubblicitari. Forse bisognerebbe tenerlo a mente anche quando si parla di musica.

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Tratto dal libro
CHECK SOUND – Dai demo tape ai social, cronache dall’underground e riflessioni a cavallo di due ere’
(Prospettiva editrice, 218 pagine, cartaceo).

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©Daniele Galassi, 2020. Riproduzione permessa citando la fonte.

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