Il Pay to Play: ha senso pagare per suonare?

L’articolo che segue è tratto dal libro
‘CHECK SOUND – Dai demo tape ai social, cronache dall’underground
e riflessioni a cavallo di due ere’ (Prospettiva editrice, 218 pagine, cartaceo)
Per leggere i primi due capitoli e saperne di più clicca qui.

Il Pay to Play (fate sempre come Niki Lauda)

Letteralmente ‘paga per suonare’, sembra una cosa assurda tipo paga per lavorare. Tutto questo finché non ci si rende conto che la musica, anche quella underground, è a tutti gli effetti un mercato, oggi più striminzito che mai.

E un mercato coi margini così ridotti all’osso non sta tanto a sindacare la forma, lui se ne frega altamente se sei bravo o meno, a lui interessa solo quanta domanda marginale intercetta la tua offerta. Il mercato vira alla sostanza, che purtroppo non è quello che vorresti.

No, non è la tua bravura.

man says no

Tradotto dalla microeconomia spicciola alla pratica più becera, chi organizza un tour quando valuta le diverse opzioni sulle band di supporto deve soppesare quanta gente in più un gruppo può portare in biglietteria,
o quanta visibilità in più può dare all’evento per un motivo o per l’altro.

Oggi, in tempi di vacche anoressiche, se il tuo apporto marginale ad un tour è zero, non solo è del tutto conforme alle basilari regole del mercato che il tuo compenso sia zero, ma molto più probabilmente tu o la tua casa discografica dovrete metterci qualcosa in qualche forma.

Fermi tutti, qui ci vuole un doveroso passo indietro o rischiamo di non capirci bene. In realtà le case discografiche hanno sempre pagato per far suonare i propri artisti su palchi altrimenti inaccessibili, direttamente col frusciante o indirettamente tra mite scambi di favori, cessione di diritti e mille altre trovate creative.

Acquisire uno slot (cioè una posizione in scaletta) ha sempre fatto parte dell’arsenale di investimenti che una label può mettere in campo per pompare e spingere i suoi pupilli, esattamente come comprare una pagina pubblicitaria, un’intervista o un passaggio radio.

Il punto cruciale è che per poter accedere a un meccanismo di Pay to Play, diretto o indiretto, fino a qualche tempo fa dovevi avere delle qualità tali da convincere qualcuno a investire su di te dopo un’attenta valutazione dei rischi e delle opportunità.

Questo significa che anche se qualcuno aveva pagato per farti salire su quel palco, il mercato (attraverso la selezione operata dalle label) ti aveva giudicato in qualche maniera idoneo alla cosa.

C’era quindi una sorta di meritocrazia, plasmata e sorretta da ferrei meccanismi di mercato, un mercato che era ancora in grado di remunerare il rischio che si sobbarcavano le case discografiche grazie a delle vendite attese incomparabilmente più alte di quelle odierne.

Se guardiamo a quello che succede oggi, per lo meno in ambito underground, ci accorgiamo che però la faccenda è cambiata.

Punto uno: le vendite sono al palo.

Punto due, diretta conseguenza del punto uno: trovare una casa discografica che sborsi cifre importanti per un buy-on (acquisto dello slot) è diventato quasi impossibile.

Punto tre, e qui arriviamo al nocciolo: praticamente qualsiasi band può comprarsi da sola tot minuti di palco per accodarsi a dei tour o per aprire un concerto di un nome più blasonato. In che modo? Gli basterà avere qualche aggancio e soprattutto le adeguate disponibilità finanziarie.

I soldi sono finiti e le label indipendenti (o quel che ne resta) hanno tirato i remi in barca; i sogni invece non conoscono crisi, ma sono le band stesse a doverne pagare il prezzo.

Oggi gli artisti sconosciuti o semisconosciuti là fuori sono centinaia di migliaia, tutti con un album in mano da promuovere, li potete sentire fare a cazzotti per accaparrarsi gli slot dalle agenzie (spesso solo un tizio con una connessione) che hanno capito il giochetto.

Questi minuti di gloria (che alla prova dei fatti posso no trasformarsi in minuti di delusione, discredito o frustrazione) vengono venduti e rivenduti, dati a sub agenti che potrebbero spacciarti un tour al terzo passaggio di mano, con l’unica certezza che a ogni step ognuno di questi baldanzosi intermediari ci avrà guadagnato sopra la sua cagnotta.

E spesso tutto avviene senza che tu venga scremato in base al fattore qualità: se paghi, sei dentro.

Questo ha introdotto un elemento distorsivo in un meccanismo che negli intenti teorici poteva essere ineccepibile, ma che alla prova dei fatti negli ultimi anni si è trasformato in una caccia alle matricole desiderose di affacciarsi sul mercato internazionale. E naturalmente il giochetto lo ha capito anche il pubblico, che sarà distratto e poco ricettivo ma non è mica scemo. Al pubblico odierno bastano tre note per snobbarti e derubricarti a gruppo inutile se non ti ritiene all’altezza.

Che gruppo di merda. Chissà quanto avranno pagato ‘sti poveri sfigati.

Il risultato finale? Uno scenario qualitativamente annacquato, un pubblico diffidente verso le nuove proposte e sempre meno affascinato dall’eroica conqusta dei riflettori.

Da ambitissimo podio che era, in certi circuiti il palco si è andato via via trasformando in un posto numerato acquistabile al bagarino.

annuncio bagarino

Ma c’è un altro punto da cui osservare il fenomeno ed è quello della sostenibilità economica. Oggi il Pay to Play è l’unica via per rendere economicamente possibili certi tour, e per una questione di matematica spicciola. Il cachet chiesto dagli headliner non risulta più sostenibile in base al monte incassi ed è lì che le band di supporto della parte bassa della scaletta entrano in gioco coi loro buy-on. Nei quartieri generali di un’agenzia che produce certi tour underground i dialoghi devono somigliare sempre più a qualcosa tipo:

‘Dunque i Turlupination chiedono 10.000 euro per 10 date, i local promoter dicono che faranno una media di 100 persone a data, il biglietto non potranno metterlo a più di 10 euro sennò la gente sta a casa… mica ci stiamo coi conti. Quanti gruppi spalla possiamo inserire? Tre? Bene, chiediamo 3.000 euro a ognuno. Ah no aspetta non bastano, così non ci mangiamo noi. Facciamo 4.000. Troppo? No dai, qualcuno lo troviamo di sicuro.’

Prima che qualcuno assoldi un sicario per aprirmi un buco in fronte, preciso che non sto sparando a zero contro le agenzie che vendono slot, né tanto meno contro le band che legittimamente decidono di investire su sé stesse. Lungi da me. Anche Niki Lauda aveva deciso di entrare in Formula 1 pagando di tasca sua, ma lui era bravo, sapeva di esserlo e aveva fatto i suoi calcoli.

Ecco perché credo fermamente che per non buttare risorse al vento, o peggio bruciarsi ancora prima di cominciare, sia doveroso accedere a questo meccanismo in maniera spietatamente critica e consapevole ponendosi le giuste domande.

È un tour realmente adatto alla nostra proposta o rischiamo di essere dei pesci fuor d’acqua? Siamo pronti su tutti i fronti come band? Siamo in grado di stare venti giorni stipati in un furgone senza che nessuno si ammazzi o vada fuori di testa? E non ultima: quanti passaggi di mano avrà fatto quello slot?

È un mondo duro, cinico e a volte ingiusto, nessuno dice il contrario, ma affrontato da sprovveduti accecati dalla sete di emergere vi assicuro che diventa proprio un mondo di merda.

mappa mondo fatta di sterco

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Tratto dal libro
CHECK SOUND – Dai demo tape ai social, cronache dall’underground e riflessioni a cavallo di due ere’
(Prospettiva editrice, 218 pagine, cartaceo).

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©Daniele Galassi, 2020. Riproduzione permessa citando la fonte.

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