Musica & hater: l’importanza di essere odiati

L’articolo che segue è tratto dal libro
‘CHECK SOUND – Dai demo tape ai social, cronache dall’underground
e riflessioni a cavallo di due ere’
(Prospettiva editrice, 218 pagine, cartaceo/ebook)

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Da quando in quel lontano 1993 ho cominciato a brancolare alla cieca nel mondo della musica in piena Dunning-Kruger, pare che non stiamo più nemmeno parlando della stessa cosa. Il web e i social hanno messo in campo una serie di forze con le quali sarebbe ingenuo pensare di non dover fare i conti e a ragionare con la cruda e macchinale logica del compongo – registro – pubblico pare si vada sempre meno lontano. Più lo guardo e più mi sembra che il sistema sia pieno di falle, ma per riuscire a sfruttarle bisogna prima scovarle e poi sapercisi intrufolare in maniera spregiudicata. Lo vediamo di continuo, con fenomeni virali nati davanti a una webcam che esplodono in rete e poi si alimentano a forza di hater, veri e propri instancabili promotori inconsapevoli.

Sapersi trovare una nicchia e acquisire credibilità al suo interno è diventato assolutamente fondamentale per chiunque, e questo vale per ogni settore, dalla moda al cinema, dalla letteratura alla musica. Perché in un mercato ultra saturo di tutto, voler parlare a tutti non solo è impossibile, ma non ha più senso. Ne ha molto di più restringere il target, polarizzare, creare fazioni e aizzarle l’una contro l’altra con lo scopo di creare una bolla di attenzione attorno a te.

Non sono meccanismi nuovi, creare dibattito per sgraffignare propellente gratuito è roba vecchia quanto il cucco, roba che ha sempre funzionato in tutti i campi. La differenza rispetto all’era della radio e della TV è che i social hanno offerto queste possibilità anche a realtà altrimenti escluse dai circhi di una certa portata, ivi compresi i musicisti fuori dal circuito della musica di massa. E attenzione, non sto affatto dicendo che sia facile buttare su uno spettacolo del genere, tutt’altro, dico che adesso è in qualche maniera possibile.

Ve la ricordate l’acqua della Ferragni a 8 euro salita alla ribalta nell’estate 2018? Quando orde di gente condivideva in orgasmo digitale questa provocazione accompagnandola con frasi di scherno, chi ne usciva vincitore secondo voi? I neo-illuministi 2.0 che si sentivano cool a botte di click o la biondona che incassava dagli sponsor? La Ferragni potrebbe aver venduto zero bottigliette (che anzi potrebbero anche non essere mai esistite) ma il suo conto in banca state pur certi che avrà trovato modo di gonfiarsi grazie al rumore fatto da quei tontoloni di hater che ci sono cascati per l’ennesima volta.

Sembra un paradosso, ma in questi scellerati giorni conviene investire per aumentare il dissenso. Perché ai fini promozionali un hater oggi vale non si sa quanti follower.

Il primo si agita, si infervora, condivide incazzato, spocchioso e altero, fa impennare i flame sotto ai post, sputa acido. Una vera furia. Il secondo ti mette un like quando va bene e passa oltre. Se poi nella bagarre si genera anche un terzo polo, chiamiamolo quello dei meta-hater (gente che sbandiera a squarciagola il proprio disinteresse circa un certo argomento), allora sì che iniziano i fuochi d’artificio.

Questo è un primo esempio perfetto di falla del sistema: si sfrutta il bisogno dell’audience di porsi al di sopra di qualcosa o qualcuno, per ottenere esposizione.

Ed è per questo che in Italia oggi tutti sanno chi è Young Signorino.

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Tratto dal libro
CHECK SOUND – Dai demo tape ai social, cronache dall’underground e riflessioni a cavallo di due ere’
(Prospettiva editrice, 218 pagine, cartaceo/ebook).

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Musicisti e FOMO: ecco come ci siamo fatti fregare dalla sindrome 2.0

L’articolo che segue è tratto dal libro
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e riflessioni a cavallo di due ere’ (Prospettiva editrice, 218 pagine, cartaceo)
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(…)
Nel mercato discografico c’è sempre stata l’esigenza di non far passare troppo tempo tra una release e l’altra perché:

a) il pubblico ha la memoria corta
b) senza un nuovo disco fuori non hai spazio nei media e senza spazio nei media chi organizza concerti non ti guarda nemmeno.

Il risultato è che se non pubblichi sarai presto un fantasma.

Questo è ancora più vero nell’era 2.0 dove tutto sembra vecchio un secondo dopo che è uscito. E siccome non è che si possa buttare in pasto al mercato qualcosa di nuovo ogni tre mesi come fanno le aziende hi-tech con le loro diavolerie, per il musicista tutto questo sa di incubo a occhi aperti.

Magari nel pop, nel rap, nel trap o nella musica mainstream foraggiata dalle major qualcuno riesce a uscirsene continuamente con singoli trainati da video intasati di culi roteanti, ma di certo non è roba per realtà underground dove l’audience è ancora legatissima al concetto di album.

Album che non cadono dagli alberi come la mela di Newton e non appaiono in sogno come una visione sciamanica, ma si materializzano solo se qualcuno ci ha dedicato sangue, sudore e bile per mesi e mesi che poi diventano come minimo due anni. E allora che si fa? Ecco sono qui che iniziano i casini, perché oggi il musicista fa tanto, spesso opinabile, rumore sul web.

Guardiamoci un attimo intorno: artisti indipendenti si sovraespongono continuamente condividendo senza sosta contenuti che li ritraggono mentre registrano, mentre compongono, mentre accordano, mentre mangiano, in sala prove, in studio, a casa. Manca giusto il video della pisciata mattutina, ma non ci metto la mano sul fuoco.

Mi chiedo se troppo spesso non si superi la linea di confine tra il necessario e l’inopportuno, ma soprattutto tra l’utile e il controproducente.

Gli psicologi e i sociologi hanno coniato il termine ‘FOMO’per indicare un nuovo disturbo dell’era dei social. L’acronimo sta per Fear of Missing Out, cioè paura di essere esclusi, irrilevanti, al di sotto della soglia di percezione. L’artista che soffre di quella che io ho sempre chiamato ansia da oblio – a conti fatti una declinazione di questa FOMO – rischia di far male a sé stesso e al sistema, annacquando la propria presenza e rendendo il giochetto sempre meno attraente per chi sta dall’altra parte.

(…)

Oggi fai un album, un bell’album, ti vedo sulle riviste di settore o su un palco e ti percepisco diverso da me povero stronzo che passo le mie giornate arenato sul divano con la panza all’aria e gli occhi inchiodati su Netflix. Chissà che vita intensa farai, chissà che soddisfazioni! Solo che poi mi cadi in preda di questa cosa chiamata FOMO e cosa fai? Mi tramortisci con contenuti di ogni genere sui social, mi insegni addirittura nota per nota quel male detto assolo che fino a ieri mi faceva passare serate agitate alla
chitarra. Non è che lo fai perché sei mosso da nobili ideali di sapere trasversale e condiviso, ma perché vuoi farci vedere come corri su quei tasti e fare man bassa di pollicioni svettanti.

Risultato? Tutto sommato ora che ti guardo bene sei uno stronzo come me, anche sei hai fatto un bel disco e come chitarrista mi dai la biada. Ed è lì che il meccanismo si inceppa. Ti vedo per quello che sei, non per quello che vorresti tanto ti vedessi. E questo contraddice tutte le regole dell’industria dello spettacolo, dove è il contrario che dal sig. Carlino di Immobil Dream:
il mercato discografico vende sogni, non solide realtà. Sei tu, o chi lavora per te, a dover alimentare e capitalizzare la percezione di quello scarto che può far drizzare le antenne.

Invece la mia impressione è che negli ultimi anni gran parte degli artisti si sia avvicinata troppo all’audience in una sorta di capriola narcisista che ha i tratti dell’autolesionismo più inconsapevole. Come se Copperfield spiegasse con un tutorial le sue illusioni prima di presentarsi davanti al suo pubblico a Las Vegas e poi ci rimanesse male se la gente in sala sbadiglia o sbircia di soppiatto le notifiche sul cellulare mentre lui si affanna a far sparire chissà cosa.

Se oggi è finita la magia, quella che solleticava lo stomaco e faceva fantasticare l’ascoltatore, credo sia anche colpa dei musicisti, immolatisi sull’altare di un’autocelebrazione didascalica e ridondante perché atterriti dalla prospettiva del dimenticatoio.

‘La familiarità genera indifferenza’

recita un vecchio adagio dei pubblicitari. Forse bisognerebbe tenerlo a mente anche quando si parla di musica.

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Tratto dal libro
CHECK SOUND – Dai demo tape ai social, cronache dall’underground e riflessioni a cavallo di due ere’
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©Daniele Galassi, 2020. Riproduzione permessa citando la fonte.

Il Pay to Play: ha senso pagare per suonare?

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Il Pay to Play (fate sempre come Niki Lauda)

Letteralmente ‘paga per suonare’, sembra una cosa assurda tipo paga per lavorare. Tutto questo finché non ci si rende conto che la musica, anche quella underground, è a tutti gli effetti un mercato, oggi più striminzito che mai.

E un mercato coi margini così ridotti all’osso non sta tanto a sindacare la forma, lui se ne frega altamente se sei bravo o meno, a lui interessa solo quanta domanda marginale intercetta la tua offerta. Il mercato vira alla sostanza, che purtroppo non è quello che vorresti.

No, non è la tua bravura.

man says no

Tradotto dalla microeconomia spicciola alla pratica più becera, chi organizza un tour quando valuta le diverse opzioni sulle band di supporto deve soppesare quanta gente in più un gruppo può portare in biglietteria,
o quanta visibilità in più può dare all’evento per un motivo o per l’altro.

Oggi, in tempi di vacche anoressiche, se il tuo apporto marginale ad un tour è zero, non solo è del tutto conforme alle basilari regole del mercato che il tuo compenso sia zero, ma molto più probabilmente tu o la tua casa discografica dovrete metterci qualcosa in qualche forma.

Fermi tutti, qui ci vuole un doveroso passo indietro o rischiamo di non capirci bene. In realtà le case discografiche hanno sempre pagato per far suonare i propri artisti su palchi altrimenti inaccessibili, direttamente col frusciante o indirettamente tra mite scambi di favori, cessione di diritti e mille altre trovate creative.

Acquisire uno slot (cioè una posizione in scaletta) ha sempre fatto parte dell’arsenale di investimenti che una label può mettere in campo per pompare e spingere i suoi pupilli, esattamente come comprare una pagina pubblicitaria, un’intervista o un passaggio radio.

Il punto cruciale è che per poter accedere a un meccanismo di Pay to Play, diretto o indiretto, fino a qualche tempo fa dovevi avere delle qualità tali da convincere qualcuno a investire su di te dopo un’attenta valutazione dei rischi e delle opportunità.

Questo significa che anche se qualcuno aveva pagato per farti salire su quel palco, il mercato (attraverso la selezione operata dalle label) ti aveva giudicato in qualche maniera idoneo alla cosa.

C’era quindi una sorta di meritocrazia, plasmata e sorretta da ferrei meccanismi di mercato, un mercato che era ancora in grado di remunerare il rischio che si sobbarcavano le case discografiche grazie a delle vendite attese incomparabilmente più alte di quelle odierne.

Se guardiamo a quello che succede oggi, per lo meno in ambito underground, ci accorgiamo che però la faccenda è cambiata.

Punto uno: le vendite sono al palo.

Punto due, diretta conseguenza del punto uno: trovare una casa discografica che sborsi cifre importanti per un buy-on (acquisto dello slot) è diventato quasi impossibile.

Punto tre, e qui arriviamo al nocciolo: praticamente qualsiasi band può comprarsi da sola tot minuti di palco per accodarsi a dei tour o per aprire un concerto di un nome più blasonato. In che modo? Gli basterà avere qualche aggancio e soprattutto le adeguate disponibilità finanziarie.

I soldi sono finiti e le label indipendenti (o quel che ne resta) hanno tirato i remi in barca; i sogni invece non conoscono crisi, ma sono le band stesse a doverne pagare il prezzo.

Oggi gli artisti sconosciuti o semisconosciuti là fuori sono centinaia di migliaia, tutti con un album in mano da promuovere, li potete sentire fare a cazzotti per accaparrarsi gli slot dalle agenzie (spesso solo un tizio con una connessione) che hanno capito il giochetto.

Questi minuti di gloria (che alla prova dei fatti posso no trasformarsi in minuti di delusione, discredito o frustrazione) vengono venduti e rivenduti, dati a sub agenti che potrebbero spacciarti un tour al terzo passaggio di mano, con l’unica certezza che a ogni step ognuno di questi baldanzosi intermediari ci avrà guadagnato sopra la sua cagnotta.

E spesso tutto avviene senza che tu venga scremato in base al fattore qualità: se paghi, sei dentro.

Questo ha introdotto un elemento distorsivo in un meccanismo che negli intenti teorici poteva essere ineccepibile, ma che alla prova dei fatti negli ultimi anni si è trasformato in una caccia alle matricole desiderose di affacciarsi sul mercato internazionale. E naturalmente il giochetto lo ha capito anche il pubblico, che sarà distratto e poco ricettivo ma non è mica scemo. Al pubblico odierno bastano tre note per snobbarti e derubricarti a gruppo inutile se non ti ritiene all’altezza.

Che gruppo di merda. Chissà quanto avranno pagato ‘sti poveri sfigati.

Il risultato finale? Uno scenario qualitativamente annacquato, un pubblico diffidente verso le nuove proposte e sempre meno affascinato dall’eroica conqusta dei riflettori.

Da ambitissimo podio che era, in certi circuiti il palco si è andato via via trasformando in un posto numerato acquistabile al bagarino.

annuncio bagarino

Ma c’è un altro punto da cui osservare il fenomeno ed è quello della sostenibilità economica. Oggi il Pay to Play è l’unica via per rendere economicamente possibili certi tour, e per una questione di matematica spicciola. Il cachet chiesto dagli headliner non risulta più sostenibile in base al monte incassi ed è lì che le band di supporto della parte bassa della scaletta entrano in gioco coi loro buy-on. Nei quartieri generali di un’agenzia che produce certi tour underground i dialoghi devono somigliare sempre più a qualcosa tipo:

‘Dunque i Turlupination chiedono 10.000 euro per 10 date, i local promoter dicono che faranno una media di 100 persone a data, il biglietto non potranno metterlo a più di 10 euro sennò la gente sta a casa… mica ci stiamo coi conti. Quanti gruppi spalla possiamo inserire? Tre? Bene, chiediamo 3.000 euro a ognuno. Ah no aspetta non bastano, così non ci mangiamo noi. Facciamo 4.000. Troppo? No dai, qualcuno lo troviamo di sicuro.’

Prima che qualcuno assoldi un sicario per aprirmi un buco in fronte, preciso che non sto sparando a zero contro le agenzie che vendono slot, né tanto meno contro le band che legittimamente decidono di investire su sé stesse. Lungi da me. Anche Niki Lauda aveva deciso di entrare in Formula 1 pagando di tasca sua, ma lui era bravo, sapeva di esserlo e aveva fatto i suoi calcoli.

Ecco perché credo fermamente che per non buttare risorse al vento, o peggio bruciarsi ancora prima di cominciare, sia doveroso accedere a questo meccanismo in maniera spietatamente critica e consapevole ponendosi le giuste domande.

È un tour realmente adatto alla nostra proposta o rischiamo di essere dei pesci fuor d’acqua? Siamo pronti su tutti i fronti come band? Siamo in grado di stare venti giorni stipati in un furgone senza che nessuno si ammazzi o vada fuori di testa? E non ultima: quanti passaggi di mano avrà fatto quello slot?

È un mondo duro, cinico e a volte ingiusto, nessuno dice il contrario, ma affrontato da sprovveduti accecati dalla sete di emergere vi assicuro che diventa proprio un mondo di merda.

mappa mondo fatta di sterco

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Tratto dal libro
CHECK SOUND – Dai demo tape ai social, cronache dall’underground e riflessioni a cavallo di due ere’
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©Daniele Galassi, 2020. Riproduzione permessa citando la fonte.